Targa per Anita Pasquali

L’8 marzo a Roma, nella Giornata Internazionale della Donna, grazie alla Presidente del I Municipio e su iniziativa dell'UDI Monteverde e dell’UDI la Goccia, a Piazza San Cosimato è stata apposta una targa per ricordare Anita Pasquali, storica dirigente nazionale UDI e presidente e fondatrice dell’UDI La Goccia, venuta a mancare alcuni mesi fa. Un altro omaggio alla sua figura e alla sua opera politica dopo il saluto nella camera ardente allestita nell’Archivio Centrale dell’UDI il 19 novembre scorso, a cui hanno partecipato tutte le espressioni del movimento delle donne a Roma, nonché la commemorazione tenutasi in Campidoglio il 24 novembre. Riportiamo l'intervento di Vittoria Tola in quest’ultima occasione. Riflettendo sul 25 novembre giornata mondiale contro la violenza alle donne è necessario ricordare che la Convenzione di Istanbul, che il Parlamento italiano ha votato all’unanimità dopo essere stata molto contrastata fino al 2013, è costruita su tre pilastri fondamentali: la prevenzione della violenza maschile in tutte le sue forme, la protezione e il sostegno a donne e minori e la punizione dei colpevoli. La Convenzione per questo è basata sulla “dovuta diligenza” o impegno necessario e permanente degli stati che l’hanno ratificata a realizzare queste necessarie politiche con l’impegno di tutte le istituzioni centrali e locali del paese. I dati sulla violenza maschile in tutte le sue espressioni, di cui il femminicidio e il figlicidio sono le forme estreme, nonostante non esista una raccolta integrata e sistematica a livello nazionale e in modo permanente, dimostrano, se ancora ce ne fosse bisogno, la gravità di questa fenomenologia che è strutturale e non accenna a diminuire. Questo nonostante i tanti passi avanti nella consapevolezza della sua gravità, le leggi e le politiche che sono state attuate sono frammentarie e spesso contradditorie. Al contrario andrebbero rafforzate la prevenzione basata su una nuova cultura tra i generi, la formazione culturale e professionale di tutti i soggetti coinvolti, la costruzione di reti locali competenti e in grande sinergia tra loro, l’aiuto alle donne anche economico e sociale e la coerenza tra politiche locali, regionali e nazionali. Raccomandazioni all’Italia fatte anche dai commissari ONU in conclusione della valutazione del Rapporto Ombra Cedaw preparato dalle associazioni delle donne e presentato a luglio 2017 a Ginevra. L’evento di oggi promosso dalla Commissione delle elette del comune di Roma, che ringrazio molto per l’invito, come tantissime iniziative, è organizzato per ricordare il 25 novembre come Giornata internazionale per l'eliminazione della violenza contro le donne, ricorrenza istituita dal 17 dicembre dopo anni di battaglie delle donne soprattutto sud americane e in seguito a quanto deciso dalla Conferenza mondiale delle donne a Pechino. L'Assemblea generale delle Nazioni Unite designando il 25 novembre, data dell’assassinio politico delle sorelle Mirabal nel 1960, invitava i governi, le organizzazioni internazionali e le a organizzare attività volte a sensibilizzare l'opinione pubblica contro la violenza alle donne in quel giorno in particolare. La lotta contro la violenza maschile, che in questi ultimi mesi è usata in Italia in una torsione strumentale di politica razzista, (dimenticando come razzismo e sessismo vadano sempre insieme!) è segnata da un movimento mondiale che ha provocato, soprattutto dopo le denunce delle attrici a Hollywood e in tutta Europa anche all’interno di governi e parlamenti, una rottura della diga del silenzio su ricatti e abusi nelle sfere del potere più intoccabile. Questo movimento dimostra la sistematicità di una pre-potenza impermeabile ai cambiamenti e ai diritti delle donne ma dimostra anche come tra le donne e non solo ci siano momenti storici di straordinaria presa di coscienza e che ogni paese ha un suo momento determinante di svolta. Per noi, che denunciamo il fenomeno da 40 anni, questo, come ben sappiamo, è avvenuto a Roma dove nel 1975, quella che viene ricordata come la strage del Circeo a opera di tre fascisti della Roma bene, innesca una grande indignazione collettiva e un movimento che da quel momento non si è più fermato e che ha prodotto cambiamenti culturali, sociali, legislativi e nuove strutture per le donne in difficoltà come i centri antiviolenza e le case rifugio, insufficienti come detto, ma di cui la capitale è stata l’antesignana. Anche di questo Roma con le sue associazioni, i collettivi, i luoghi politici e culturali è stato uno straordinario laboratorio politico e continua ad esserlo dal Governo Vecchio alla Casa internazionale, al primo centro della provincia e del comune, alla prima legge regionale in Italia per sostenerli. Questo è stato possibile perché al lavoro del movimento femminista si è affiancato l’impegno di donne delle istituzioni. In particolare oggi voglio ricordare Anita Pasquali, scomparsa il 18 dicembre, che da consigliera comunale è stata una protagonista della legge di iniziativa popolare contro le norme del codice Rocco presentata nel 1979 dall’MLD, UDI e MFR e coordinamenti sindacali, dopo tutte le mobilitazioni negli anni 70, e che proprio nella sala accanto a questa ha organizzato a Roma il primo seminario su ”Botte in famiglia. Un fatto privato?” Era la prima volta negli anni ‘80 perché l’attenzione era stata più concentrata sullo stupro, sulle molestie e ricatti nei posti di lavoro (non sono per noi una novità purtroppo! Chissà chi ricorda la Risoluzione Rubinstein del Parlamento europeo del 1986!) e anche se si sapeva bene quanta violenza esisteva nell’ambito familiare il pensiero dominante era ancora che i panni sporchi vanno lavati in famiglia, nel privato insomma. Anita da consigliera comunale e da dirigente dell’Udi ne fece un fatto pubblico e politico con una domanda provocatoria e chiamando tutte a discuterne in Campidoglio ponendo anche il problema di come coinvolgere le/gli operatori dei consultori di Roma e provincia che tante lotte erano costati. Questi, infatti, erano stati per l’Udi, come gli asili nido, l’altra grande battaglia sui servizi a Roma, come i referendum sul divorzio e per l’autodeterminazione per l’aborto, il nuovo diritto di famiglia e contro le discriminazioni. D’altra parte le lotte delle donne a Roma per la loro libertà di scelta e per cambiare in meglio la loro vita, come sul valore sociale della maternità e sui diritti dei bambini e dei soggetti più fragili, è sempre stata una lotta che ha prodotto miglioramenti nella vita di tutta la città a cominciare dall’impegno fondamentale delle donne durante la Resistenza pagato duramente per liberare Roma dai nazisti e dai fascisti e poter vivere in pace e democraticamente. Anita Pasquali nata a Benevento il 17 febbraio del 1930, per caso e per obbligo, come diceva, in quanto il padre in quella città era stato trasferito come antifascista, si diploma maestra e per tutta la vita si impegna per i diritti e la valorizzazione delle donne nella società italiana e per trasformare positivamente i rapporti tra i sessi. Bella e determinata ha sempre auspicato l’unità delle forze progressiste ed il massimo dialogo e apertura a tutte le altre sensibilità e correnti culturali, ideali e politiche del Paese, ma confrontandosi apertamente e senza rinunciare alle proprie idee e posizioni. Arrivata a Roma dopo la Liberazione è stata una protagonista per tanti anni nella città sempre in prima linea nella battaglia per migliorare la città che conosceva bene dal centro alle periferie, per i diritti delle donne e del movimento delle donne. Con l'UDI ha condiviso lotte, fatiche e vittorie. Iscritta dalla Liberazione al Partito Comunista Italiano, Anita Pasquali entrò subito dopo nell’Unione Donne Italiane, giungendo poi alla Segreteria nazionale dell’UDI. Fu eletta anche al Comitato Centrale del PCI ed era stata vice responsabile della Commissione Femminile sotta la direzione di Adriana Seroni. Eletta Consigliera comunale del Pci a Roma negli anni del grande successo delle sinistre con i Sindaci Giulio Carlo Argan e Luigi Petroselli, è successivamente Consigliera provinciale di Roma, fondatrice e presidente dell'UDI Romana La Goccia. Il suo impegno è stato fermato negli ultimi anni solo dall’aggravarsi della sua malattia. Oggi vediamo che ci ha raggiunto, nonostante tutto, e lo ringraziamo di cuore, suo marito Giuseppe Dama che salutiamo con emozione perché con Bepi Anita ha vissuto per sessanta anni. La loro unione ha superato tante difficoltà in un’Italia certo molto diversa da adesso ma, oltre i loro sentimenti, hanno condiviso la stessa passione politica e lo stesso impegno. Giuseppe Dama è stato oltre che un partigiano, dirigente politico e responsabile dell’Istituto di Studi Palmiro Togliatti, Presidente del 1 municipio a Roma che ha gestito con grande autorevolezza. Anita Pasquali ha sostenuto convintamente la necessità della trasversalità del movimento delle donne per cambiare la società e non ha mai avuto paura del confronto e del conflitto, se necessario, anche tra le realtà più lontane. Tra le protagoniste di una stagione di rinnovamento “Sono una tra tante altre donne che hanno lottato anche per chi non poteva farlo" - affermava spesso - per questo era consapevole e profondamente rispettosa del suo ruolo come donna delle istituzioni nel rapporto con tutte. E’ stata tenace sostenitrice della soluzione positiva per definire, a suo tempo, dopo anni di occupazione, la sede del Buon Pastore come Casa Internazionale delle Donne, luogo di incontro, cultura, politica e servizi per le donne di Roma e non solo, convinta com’era che, anche in questo, la funzione di Roma Capitale doveva comprendere il fatto che era ed è la capitale politica delle donne. Altre foto qui.

Noi ci chiediamo

Non c’è stupore, solo rabbia feroce e dolore profondo per l’uccisione di due bambine e il tentato assassinio con ferimento gravissimo, e dall’esito incerto, di Antonia Gargiulo da parte del marito e padre Luigi Capasso, appuntato dei Carabinieri.Lo sconcerto inscenato dai media, desta indignazione e non poco stupore in chi si occupa da anni della violenza maschile sulle donne: sappiamo che i delitti di femminicidio sono sempre ampiamente annunciati perché troppo spesso premeditati e non provocati da pazzia o da raptus. In questo caso oltre le responsabilità generali precise che denunciamo da sempre ci sono anche responsabilità circostanziate dopo le richieste di aiuto di Antonietta per sé e per le figlie.Nei resoconti dei media i commenti e le minimizzazioni sono gli stessi di sempre, perché è difficile trovare parole nuove per delitti terribilmente simili nel percorso che li genera e sono le stesse di sempre anche le domande che pongono i media, alla ricerca del dettaglio e di uno scoop che la ripetitività dell’atto rende ormai impossibile.L’informazione diventa così immediatamente stucchevole e obsoleta, cose già viste e sentite che si possono dimenticare facilmente, soprattutto se sono delitti che non possono essere usati politicamente per alimentare il clima di odio per chi è diverso, ma riguardano invece proprio i tutori dell’ordine, i paladini della sicurezza.Noi ci chiediamo perché chi porta un’arma per lavoro può portarsela a casa mentre sappiamo benissimo che nessuno può portare a casa strumenti di lavoro, soprattutto se potenzialmente pericolosi.Noi ci chiediamo perché a Capasso sia stato permesso, dopo la perizia, di mantenere l’arma nonostante quanto rivelato dalla moglie all’Arma e nonostante lui stesso abbia dichiarato di star male.Noi ci chiediamo perché i suoi superiori si richiamano a una perizia psicologica quando sappiamo benissimo che il femminicidio della partner è quasi sempre premeditato e certamente non è frutto di qualche disturbo o disagio mentale rilevabile in un colloquio.Noi ci chiediamo in particolare perché ci sia bisogno di una valutazione psicologica, palesemente e drammaticamente inutile, se non trovano credibilità le parole della donna che subisce violenza.Noi ci chiediamo perché il personale delle istituzioni, di uno Stato che ha firmato la Convenzione di Istambul, che dovrebbe tutelare cittadini e cittadine, sia o appaia gravemente incompetente sulla questione della violenza, che presenta dati allarmanti non emergenziali ma strutturali anche tra le forze dell’ordine.Noi ci chiediamo perché i media, che concorrono alla formazione delle immagini e dei comportamenti sociali, continuino con un’informazione sciatta, poco pertinente, interessata solo alla ricerca di particolari spesso inutili all’informazione stessa, giustificativi dell’assassino o colpevolizzanti della donna, continuando a raccontare in modo osceno l’amore paterno.Noi ci chiediamo perché sia così difficile capire che un uomo violento in famiglia e contro la moglie non è mai un buon padre.Noi ci chiediamo perché resti fuori dall’informazione e dalla formazione tutto il mondo delle associazioni, gruppi, movimenti e donne che di questi temi si occupano passandosi faticosamente il testimone da decenni.Noi ci chiediamo perché una donna terrorizzata che chiede aiuto ai sevizi territoriali sia convinta a fare mediazione famigliare proibita dalla Convenzione di Istanbul e dall’Intesa Stato-Regioni.Noi ci chiediamo quale sia la formazione scolastica e universitaria che legittima la teoria sessista della PAS e la forma patriarcale delle relazioni umane contraria ai principi della Costituzione.Noi ci chiediamo perché i media continuino a privilegiare il parere di cosiddetti esperti o esperte rendendo invisibile la rete reale di donne che su questi temi prima di tutto si confrontano lavorando CON le donne e non per le donne o, peggio ancora, sulle donne.Noi ci chiediamo perché i e le professioniste che per lavoro dovrebbero prevenire, intercettare, fermare la violenza maschile sulle donne non cominciano a lavorare sul proprio immaginario, sugli stereotipi, sulle tante pratiche attraverso le quali le donne vengono ancora considerate cittadine di seconda scelta, incapaci di pensare, scegliere, agire.Noi ci chiediamo perché la scuola, gli/le insegnanti, gli/le assistenti sociali non abbiano ascoltato e capito il terrore delle bambine e della madre.Noi ci chiediamo se Antonietta si salverà come e con chi potrà affrontare la tragedia della sua vita.Noi ci chiediamo perché le pratiche di ascolto della società civile, di cui le donne sono maggioranza, non siano diventate, nonostante i decenni di lavoro, permanente patrimonio istituzionale corrente e non casuale comportamento virtuoso lasciato alle scelte e inclinazioni individuali.Noi ci chiediamo se femminicidi e figlicidi non diventano sempre più tragici perché uomini violenti sanno di poter contare su complicità culturali e politiche palesi e occulte a ogni livello.Noi ci chiediamo: a chi possiamo rivolgerci come donne se le istituzioni tollerano aree di superficialità connivente e operano guardando la realtà attraverso il pregiudizio?Noi ci chiediamo se non sia arrivato il momento di dire BASTA! e che i responsabili diretti e indiretti della mattanza di Cisterna debbano dare le dimissioni per quanto non hanno fatto dopo gli allarmi di Antonietta e per quello che hanno fatto lasciando il carabiniere Capasso in condizione di programmare i tre assassini.Noi ci chiediamo se il Governo, nelle figure dei ministri con le deleghe per prevenire la violenza alle donne, aiutare queste con i/le loro figlie a mettersi in salvo e punire i colpevoli, non si debba assumere in modo chiaro le proprie responsabilità.L’alternativa è che tutto continuerà come è successo finora, in cui i reati di altra natura calano, ma la violenza contro le donne, i femminicidi e i figlicidi continuano indisturbati e sempre più feroci.Nonostante la Convenzione di Istanbul, nonostante la Cedu!Il tempo delle domande è finito da tempo: vogliamo risposte.​

Dopo la relazione ministeriale relativa al 2016 -legge 194 e consultori​

A chiunque sarà il/ la prossimo/a ministra della salute vorremmo ri-presentare, nel senso che tante volte sono state poste, alcune questioni per noi irrinunciabili e chiedere serie verifiche e cambiamenti rispetto alla annuale (ormai biennale per continui ritardi) relazione sulla legge 194. Verifiche in merito a criteri di raccolta dati, quindi verifiche sulla veridicità e credibilità degli stessi, infine cambiamenti rispetto alle scelte e politiche conseguenti. Condividiamo in pieno quanto scrive AMICA (Associazione Medici Italiani Contraccezione e Aborto) a commento della tardiva (dieci mesi di ritardo) e quasi clandestina relazione ministeriale sull’attuazione della legge 194, relativa all’anno 2016. In particolare è da sottolineare il fatto che, seppur con vari distinguo, si riconosce che la diminuzione del numero delle interruzioni di gravidanza, al di sotto delle 100.000 per il terzo anno consecutivo, potrebbe essere in parte riconducibile all’eliminazione della prescrizione medica per la contraccezione d’emergenza. E dunque ci chiediamo noi, come si chiede AMICA, che cosa si aspetta ad eliminarla anche per le ragazze minorenni e distribuirla gratuitamente nei consultori pubblici e nei poliambulatori?Ma, aggiungiamo, se così è, come e perché e per quanto tempo ancora la contraccezione di emergenza può essere oggetto di restrizioni e gravi limitazioni, dovute in molti casi ad obiezioni di medici e farmacisti, obiezioni del tutto fuori legge? Quando finirà questa illegalità diffusa sulla pelle delle donne?Se dunque si riconosce, finalmente, l’importanza di una cultura contraccettiva sia per prevenire il ricorso all’aborto che per vivere una sessualità consapevole, è evidente che contemporaneamente va fortemente richiesto che la contraccezione, attualmente a pagamento, venga riconsiderata tra le prescrizioni gratuite del servizio sanitario nazionale. O salute e libertà femminile non sono obiettivi primari?Sui consultori e il loro numero, poi, le finzioni ministeriali mostrano tutta la loro nocività. I numeri dati dalla relazione ministeriale, 0,6 consultori ogni 20.000 abitanti (mentre dovrebbero essere 1 ogni 20.000 abitanti) mostrerebbero una situazione solo scarsamente critica. Peccato che di questi consultori, a detta proprio della relazione, molti sono dedicati all’età evolutiva o hanno solo alcuni servizi e non altri, ad esempio non trattano l’IVG. Infine grave è la riduzione di orario e di personale dedicato e competente.Eppure la legge 194 prevede proprio i servizi consultoriali come strutture privilegiate sia per la prevenzione che per l’applicazione della legge. Una lettura onesta di tutto ciò dovrebbe portare a percepire quali e quante criticità vi sono attorno ai consultori e alla legge 194, dove alcuni luoghi e regioni cosiddette virtuose (in realtà con obiezioni comunque attorno al 50% e chi si accontenta gode) sono solo meno inadempienti di altre.E’ il dato nazionale dell’applicazione della legge 194 rispetto all’obiezione (sette su dieci, con una percentuale nazionale media del 70%, ma con punte in certe regione di oltre il 90% che comporta anche il 100% in molte strutture) e lo svuotamento progressivo dei consultori che dà il segno del piano inclinato su cui ci troviamo. Un piano inclinato che porta all’inapplicabilità progressiva della legge 194, dunque ad una revisione privatistica del diritto all’interruzione di gravidanza, quando non ad una sostanziale messa in discussione. L’ineffabile ormai ex ministra Lorenzin dovrebbe chiedersi che cosa è un consultorio, quali sono i servizi che deve contenere e dunque quali équipes in esso debbono inequivocabilmente esservi. Solo dopo può rifare i conti e dirci in realtà quanti sono i consultori, sul territorio nazionale, regioni “virtuose” comprese. Sempre meno, sempre più sotto organico, perché quasi mai chi va in pensione viene sostituito. Sull’obiezione di coscienza , infine, la relazione ministeriale mostra il suo vero volto, il volto di chi da più di quarant’anni boicotta questa legge che le donne hanno ottenuto. E allora via con giravolte numeriche, messe in atto solo per nascondere la realtà. Gli aborti calano, le obiezioni crescono e , udite udite, calano mediamente anche i tempi di attesa. Non viene in mente che, come denuncia AMICA, la facilità con cui si possono reperire farmaci abortivi anche online, e la relativa “sicurezza” degli stessi, contribuisce a far slittare molte interruzioni nell’area della clandestinità. Ma è una sconfitta, è una non applicazione della legge che intendeva anche responsabilizzare la società tutta. UDI non ha mai chiesto aborto libero, fatto in casa, solo depenalizzato o altro, ha chiesto una legge dello stato, ha chiesto che se ne facesse carico il servizio sanitario nazionale. Ha chiesto che anche psicologicamente e culturalmente l’aborto uscisse dalla clandestinità e venisse affrontato per quello che è. Solo così si può sperare di prevenirlo, diffondendo una cultura diversa dei rapporti uomo donna e allargando le conoscenze e le informazioni e gli accessi alla contraccezione per giovani, meno giovani,per italiane e straniere. NON POSSIAMO DARLA VINTA A CHI proteggendo e praticando l’obiezione selvaggia, ricaccia l’aborto nel privato, nella clandestinità, nel non detto. E riducendo via via il peso specifico e il numero dei consultori priva di fatto le donne, soprattutto se in difficoltà economica, di presidi fondamentali della loro salute. Comprese le donne immigrate Perché la 194 sia applicata veramente UDI ribadisce la sua richiesta di una legge nazionale di regolamentazione dell’obiezione di coscienza: tetto massimo di obiettori per struttura; consultabilità degli elenchi dei medici obiettori, per la scelta del medico di base, funzioni apicali e di dirigenza solo a non obiettori, penalizzazioni in denaro o in ore di lavoro per chi si dichiara obiettore alla legge 194. Riconoscimenti per chi applica con onestà una legge dello stato! Per come sono andate le cose fino a qui, sembrano richieste “estreme”, in realtà sono il minimo in un paese civile. Quando mai chi obietta ad una legge dello stato ha funzioni di responsabilità e di dirigenza proprio in relazione alla legge stessa? Avete mai visto un colonello, o anche solo un ministro alla difesa obiettore rispetto all’uso delle armi? Perché alle donne si può fare di tutto? ADESSO BASTA! lo abbiamo detto e ripetuto. L’obiezione di coscienza è uno strumento pensato per difendere i diritti di minoranze rispetto ad una maggioranza. Non può essere il contrario. Un numero di obiettori che raggiunge anche punte oltre il 90% in tanta parte d’Italia, lo svuotamento dei consultori, le vacue relazioni ministeriali che non sanno fare due più due uguale a quattro, sono uno scenario che non vogliamo più vedere. A tutti i livelli chiediamo una svolta.  ​

8 marzo 2018, da donna a donna, di donna in donna​

Da più di cento anni l’8 marzo è un appuntamento di lotta per ottenere diritti, per affermare diritti.Di generazione in generazione sempre più donne si passano una testimonianza di responsabilità verso se stesse inventando nuove parole, nuovi percorsi, nuovi orizzonti, portando avanti la lotta per la libertà di scegliere, scoprire, decidere, essere, vivere.Dalla nostra storia continuiamo a testimoniare l’antifascismo e l’impegno per la libertà e la democrazia che le donne italiane hanno conquistato passo dopo passo cominciando dalla Costituzione repubblicana.Vogliamo affermare la libertà di attraversare ogni confine per il diritto alla vita e alla dignità e il diritto di abitare in pace.Contro le azioni e le mistificazioni che di ogni spazio fanno mercato e di ogni persona merce, oggi molte donne sentono che incrociare le braccia può essere un modo per sovvertire il mondo.Noi speriamo di arrivare un giorno a realizzare lo sciopero globale delle donne dal lavoro produttivo e riproduttivo, uno sciopero che assumendo lo strumento storicamente contrattato dentro i diritti sindacali del lavoro dipendente, lo trasforma in un gesto di sottrazione che rende visibili tutti i lavori invisibili e sfruttati in cui sono ancora confinate moltissime donne.Un gesto che oggi possiamo esprimere in molti modi, scegliendo quando come e dove manifestare insieme, quali scelte individuali e quali scelte collettive possiamo praticare perché sostenibili dalle nostre vite.Sappiamo che i lavori della riproduzione, nella manutenzione delle case e di ogni ambiente, nell’assistenza, cura, educazione, accompagnamento delle persone di ogni età e condizione, nella pratica, invenzione e trasmissione del sapere, nella tutela della salute e cura della malattia, in tutte le forme dell’organizzazione sociale, sono il fondamento dell’esistenza e della possibilità produttiva.In molti lavori della riproduzione lo stesso diritto di sciopero è infatti limitato dal rispetto per le fondamentali necessità della vita.Le donne si occupano della vita, secondo i dati del Censis, per una media di tre ore al giorno più degli uomini, perciò se le donne incrociano le braccia si ferma il mondo.Possiamo fermarlo per il tempo utile a renderci visibili ovunque, nei luoghi pubblici e privati, nelle relazioni sociali e in quelle più intime, nei luoghi della politica e in quelli del mercato.Possiamo fermare anche le attività che svolgiamo nel ruolo di consumatrici, terminali a cui ammicca il mercato con la pubblicità usando i nostri corpi come materia inerte da plasmare e le nostre vite come contenitori da sfruttare per il profitto.L’Udi ha ripreso e reinventato la tradizione dell’8 marzo nel 1945, dopo i lunghi anni del divieto fascista, continuato negli anni ’50 con la proibizione perfino della mimosa, considerata sovversiva.Un fiore da donna a donna per fondare la solidarietà femminile e inscriverla nel mondo come segno di cambiamento dell’ordine patriarcale.Un fiore simbolico che oggi diventa un legame tra noi, un patto per tutte le lotte che chiedono la nostra intelligenza e la nostra presenza, anche costruendo forme di attivismo diverse dai tradizionali codici maschili com’è nella tradizione femminista.Presenti in piazza, nei tribunali, accanto alle donne che fuggono dalla violenza delle guerre, dalla violenza domestica e sui luoghi di lavoro, vicine alle donne che vogliono riprendere in mano la propria vita, continuiamo ad essere presenti alla nostra storia per affermare con determinazioneMAI STARE ZITTE, MAI STATE ZITTEDi generazione in generazione il movimento prende nuovi nomi e nuove forme con la creatività e l’invenzione di ogni donna che parte dal proprio tempo per incontrare molte altre.Siamo diverse e insieme, con i gesti nonviolenti di una forza collettiva che genera un cambiamento enorme e pacifico come da sempre ogni nostra manifestazione.La memoria delle lotte e delle conquiste è la strada su cui possiamo camminare vicine e solidali.Ogni otto marzo un passo avanti nel cammino delle donne.​

Chi ha paura della Merlin? Mai più case chiuse! Di Vittoria Tola​

Onore alla senatrice Merlin grazie alla quale, sessant’anni fa, il 20 febbraio del 1958 entrò in vigore una delle leggi più discusse, stimate, controverse e odiate della nostra storia, la numero 75, meglio nota come legge Merlin dal nome della promotrice nonché prima firmataria, la senatrice Lina Merlin nel 1948. Un provvedimento che dopo dieci anni dal suo inizio abolì la regolamentazione della prostituzione di stato, chiudendo le case di tolleranza come le chiamò il regime fascista rinverdendo le leggi sulla regolamentazione di stato della prostituzione introdotta da Cavour nel 1848.La L. 75/58 dichiara che la prostituzione non è un reato, ma introduce i reati di sfruttamento, induzione e favoreggiamento della prostituzione anche recependo la Dichiarazione universale del diritti umani dell’Onu del 1948. La legge Merlin, votata dai partiti antifascisti, ma non dall’Msi, di fatto liberò oltre tremila donne dalla “indegna schiavitù”, come la chiamò Anna Maria Mozzoni dopo l’Unità d’Italia e come poi riprese Lina Merlin. La legge ridiede dignità e libertà non solo a loro, soprattutto le povere e ingannate, costrette a subire -come scrisse una donna, nelle “Lettere dalle case chiuse” scritte alla Merlin- anche cento uomini al giorno, ma anche ai loro figli, oltre che a tutte quelle che dalle case erano scampate, di potersi rifare una vita, trovare un lavoro, farsi una famiglia, sposarsi non più sottoposte all’obbligo di essere “patentate” contro la loro decisione, né al controllo della polizia sulla loro vita e le loro scelte, che le portavano spesso ancora molto giovani nei sifilocomi. Il tanto vantato obbligo di controllo sanitario in realtà era un obbligo alla visita medica che valeva solo per le donne, ma non valeva per i clienti, giovani e anziani, celibi e sposati che continuavano ad infettarle senza rimorso alcuno con la connivenza di proprietari di bordelli, tenutarie e medici compiacenti, con una corruttela politica che dovrebbe essere studiata meglio dai suoi estimatori.In questa campagna elettorale sgangherata, esponenti politici di primo piano non hanno esitato a riproporre forme di regolamentazione della prostituzione e di assimilazione ad un lavoro non meglio definito in nome -in un paese di grandi evasori- della necessità di incrementare il pagamento di tasse da parte di sex worker. Inoltre, e sarà segno dei tempi amari che viviamo, il Tribunale di Bari accetta di sottoporre la Legge Merlin alla Corte Costituzionale, come chiedono i legali di Tarantino -il rifornitore di escort a Palazzo Grazioli- sperando di arrivare a rendere legittimo e non punibile penalmente il reato di induzione, favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione in nome dell’autodeterminazione delle donne.La battaglia della Merlin contro la prostituzione di stato durò dieci anni e fu condotta senza esclusione di colpi da parte di tenutari che finanziarono campagne contro la senatrice senza badare a spese; di medici che avevano il loro tornaconto sull’affare; di parlamentari anche del partito della Merlin che cercavano motivazioni nobili per tutti i clienti delle case chiuse che rappresentavano il monumento legittimo dei loro vizi e di una sessualità maschile predatoria e senza limiti verso le donne da usare, anche per iniziare alla sessualità i loro figli o per tenere buoni soldati e marinai in una leva senza fine. Un sistema tra i peggiori che il patriarcato abbia mai definito contro le donne e contro cui si ribellarono, fin dall’8oo, donne e uomini in tutto il mondo riuscendo a modificare molte legislazioni nazionali. L’Italia insieme alla Francia e alla Svizzera rimase ben ultima fino a dopo la Seconda Guerra mondiale. Lina Merlin straordinaria donna antifascista, fondatrice dell’Udi e Costituente tra le più importanti e rispettate, riprese la questione e, anche ispirandosi alla battaglia in Francia di Marthe Richard, riuscì nonostante tutti gli avversari a portare a termine la sua battaglia.Da sessant’anni anni in ogni legislatura, in Parlamento, sono presentate proposte di tutti i tipi per modificarla, e non è un caso che da sessant’anni nessuno ci riesca. La legge più osteggiata della storia italiana e anche la legge più solida nel tempo; tuttavia questo non meraviglia chi conosce bene la storia politica della Merlin e della legge da lei voluta con una capacità di lotta e di documentazione su ogni aspetto che ancora impressiona. Non a caso per una parlamentare che ha lavorato tantissimo e dalla Costituente è rimasta famosa per l’art.3, e poi su tante leggi contro gli esperimenti nucleari, contro la guerra, sull’infanzia, sulla scuola, sul Polesine, sulle arti e sulla sanità, questa legge rimane il suo risultato più famoso.Contrariamente a quanto spesso viene sostenuto, non è vero che chiusura delle case chiuse scatenò la prostituzione di strada: non solo perché anche prima erano migliaia le non “patentate” che sfuggivano alle case e alla polizia, ma anche perché, come chiunque potrebbe vedere se volesse documentarsi, dopo il ‘58 e in concomitanza con il boom economico molte donne cercarono e trovarono lavoro e, come dimostrano dati delle FFO, inchieste, studi storici e il cinema, se sulla strada rimasero una piccola parte delle donne più povere, altre si organizzarono al chiuso ma tenendo alla larga sfruttatori che comunque non si arresero mai e provarono a riorganizzarsi. Il dato della prostituzione su strada fu comunque residuale anche per i cambiamenti sociali e culturali fino a oltre la metà degli anni ‘80 quando gli sfruttatori della “industria” del sesso, non decisero di usare le ragazze tossicodipendenti e l’esplosione dell’ HIV non fu l’occasione per buttare sulla strada ragazze nigeriane attirate con false promesse dal loro paese mentre la disintegrazione dei paesi del blocco di Varsavia riversava, per necessità e con inganno, nelle nostre città migliaia di donne in mano ai trafficanti. Problema a tutt’oggi certo non risolto ma che grazie alla legge Merlin non puntò a criminalizzare le vittime ma i trafficanti e gli sfruttatori. L’Italia infatti, approvando l’art. 18 nella legge sull’immigrazione del 1998, poi nel 2000 il Protocollo di Palermo “Protocollo delle Nazioni Unite sulla prevenzione, soppressione e persecuzione del traffico di esseri umani, in particolar modo donne e bambini, (noto anche come il protocollo sulla tratta degli esseri umani adottato congiuntamente alla Convenzione contro la criminalità organizzata transnazionale). L’esperienza italiana ha contributo nel 2005 alla Convenzione di Varsavia contro la tratta di esseri umani a fini di sfruttamento sessuale e l’Italia rimane il paese con il più alto numero di donne sottratte in questi anni alle mani dei trafficanti anche se lo sforzo non è ancora sufficiente. Un lavoro che deve continuare ed essere reso sempre più forte ed organico, situato com’è nell’intreccio tra immigrazione, prostituzione, mancanza di lavoro e accoglienza degna di questo nome, ma anche con una domanda di prostituzione da parte maschile ignobile e insopportabile.Possiamo dire con assoluta certezza che, pur essendo vissuta in un’altra epoca, la senatrice aveva ben chiaro, cosa che non succede a troppi nell’epoca di e , la differenza che esiste tra violenza maschile e capacità di conquistare una donna.Nonostante le regressioni in atto indietro non si torna! La Merlin non si tocca!​

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