Lettera alle istituzioni sulla convenzione di Istanbul
La Convenzione di Istanbul non viene pienamente applicata in Italia.
Dopo la ratifica del 2013, in sede parlamentare, non si è tenuto fede al prescritto adeguamento delle norme civili a garanzia del pieno diritto alla libertà delle donne vittime di violenza maschile, il che vanifica gli effetti di un numero altissimo di sentenze che condannano gli autori di reati di persecuzione, lesioni e perfino di tentativi di femminicidio o di efferati figlicidi. Dopo sette anni di attività parlamentari si registrano provvedimenti e progetti di legge addirittura in contrasto alla Convenzione stessa.
Il rapporto del GREVIO (gruppo di monitoraggio presso il Consiglio d’Europa), presentato nel 2019, sullo stato di applicazione della Convenzione, i rapporti resi pubblici dai cav , dalle reti come D.i.Re (riconosciuta fonte attendibile presso le istituzioni e presso il GREVIO), dalle ONG femministe (tra cui UDI di Napoli, Arcidonna, Salute donna ed esperti/e "sulle procedure dei tribunali civili e minorili riguardanti la affidamento dei figli nei casi di violenza domestica") descrivono lo stato confuso della realtà istituzionale che da una parte si esprime contro la violenza sulle donne e dall’altra si trova ad applicare leggi inadeguate al dettato della Convenzione, non di rado in aperta contraddizione tra loro sul piano applicativo e normativo.
Quello che viene definito il coraggio di denunciare da parte delle donne, è una novità conseguente ai cambiamenti civili voluti e innanzi tutto praticati dalle donne. Questo andrebbe meglio definito come “conquista della libertà di denunciare” ed è il risultato della spinta propulsiva del movimento femminista e delle donne che hanno creato le condizioni di rottura del silenzio sulla violenza maschile.
Questa spinta del movimento delle donne per la ratifica della Convenzione contro la violenza degli uomini sulle donne è stata fondamentale. Come da anni ormai le donne denunciano l’incongruenza di leggi radicalmente ancorate al principio (negato e apparentemente rimosso dal 1975) del capofamiglia uomo, che pure volentieri molti giudici applicano, comminando pene ridotte ai violenti che poi continuano la loro opera terroristica sugli spazi vitali di donne e bambini.
Negli affidamenti che spesso escludono le madri sulla base della loro denuncia delle violenze subite dal partner, negli allontanamenti non garantiti da alcun meccanismo di controllo sui comportamenti aggressivi dei partners, nelle molestie e nelle violenze sessuali sui posti di lavoro, negli stupri commessi nell’inerzia di intere comunità complici (dove addirittura sindaci si ergono a difesa degli autori), in tutti le occasioni che rendono una donna vittima della violenza maschile, c’è una mancanza profonda di prevenzione e di formazione specifica. L’incuria applicativa segnala il perdurare di antiche complicità, che vanno affrontate e superate. Per ogni aspetto della condizione derivante dall’asimmetria di potere tra donne e uomini (compresa quella economica), la Convenzione impegna il Parlamento e le istituzioni a un’attività riformatrice e all’emanazione di norme applicative.
Tutte le donne presenti sul territorio italiano, native migranti e temporaneamente residenti, sperimentano la mancata protezione, protezione e salvaguardia invece prescritta dalla Convenzione.
Le leggi non bastano a cambiare i retaggi e la cultura (argomento invocato sempre ed ogni volta che vengono individuate le cause istituzionali della violenza perpetrata sulle donne), ma sono però il segno necessario del recepimento della differenza tra vittime e carnefici, vittime e carnefici spesso confusi da un eccesso interpretativo nei tribunali nonché dallo zelo politico di chi nelle istituzioni si fa carico delle pressioni lobbistiche misogine. Le donne italiane hanno dimostrato di potere e sapere cambiare la cultura. Lo Stato deve fare la sua parte seguendo le indicazioni che ha sottoscritto: ha preso un impegno e approvato una norma che comporta l’adeguamento della legislazione per il contrasto avanzato al femminicidio e alla violenza che lo precede e lo segue. Al contrario, invece, nella crisi economica e nell’emergenza sanitaria, si è scelto di individuare le donne come soggetti destinati a pagare il prezzo più alto, con la mancata salvaguardia dei diritti ormai acquisiti, la riduzione delle tutele e con la riduzione dei supporti istituzionali ordinari e quelli appunto previsti dalla Convenzione.
In dettaglio
1- Le vicende delle donne madri sottoposte alla vessazione istituzionale denunciano che:
dopo l’individuazione e la sanzione del reato violento perpetrato dal partner, nei noti casi, la declinazione dei provvedimenti è affidata a soggetti, anche se deputati alla funzione, privi della formazione specifica prescritta della CDI. Si riscontra infatti la grande disinformazione sulle dette norme nei tribunali e nei servizi sociali e l’interpretazione ostile di norme che, pure inadeguate, non comporterebbero automaticamente la prevalenza degli interessi del padre su quelli della madre, additata come portatrice di patologie comportamentali, con la sola ragione di aver esercitato il proprio diritto di denunciare, e dei figli, anche quando vittime di violenza assistita quindi sottoposti a grave violenza psicologica. Nei casi resi pubblici dalle azioni di donne ed associazioni si nota, e si denuncia, la totale inosservanza dell’art. 15 del capitolo III (formazione dei soggetti pubblici e privati deputati alla tutela delle donne); l’inosservanza e mancata sorveglianza sull’applicazione dell’art.18 al capitolo IV (norme generali, che prescrive la collaborazione di tutti i soggetti a garanzia della sicurezza delle donne), inosservanza e contrasto all’art. 26 del Capitolo IV (protezione e supporto ai bambini testimoni di violenza sulla madre), inosservanza e contrasto all’art. 31 del capitolo V (diritto di visita e sicurezza dei minori in presenza del maltrattante). Va sottolineata la non introduzione legislativa della nozione di “violenza assistita” come aggravante.
2- Le donne ridotte in schiavitù sessuale e vittime di tratta, vittime del mercato criminale e della tratta di esseri umani, sono private delle protezioni previste da leggi ordinarie e dalla Convenzione:
in coerenza con il preambolo e il primo capitolo, con particolare attinenza all’art.3, che definisce violenza tutti gli atti che provocano sofferenza e danno attraverso coercizione fisica ed economica (…..), le donne condizionate dalla precarietà dello status di vittime di tratta e clandestinità (secondo la legge italiana), sono destinatarie di tutte le prescrizioni a tutela previste dalla Convenzione. Tuttavia in aperta violazione dell’art. 60 del capitolo VII (richieste di asilo basate sul genere) le donne in quanto prive delle informazioni necessarie finiscono per essere associate allo status del capofamiglia, quando non a quello dei trafficanti. All’interno della condizione di queste donne è quasi totalmente esclusa la fattispecie dell’art. 44 del capitolo V (donne a qualunque titolo presente sul territorio anche a bordo di velivoli e natanti) per cui non sono previste azioni urgenti e competenti all’accoglienza. I responsabili istituzionali, nelle vecchie fattispecie di “clandestina”, “prostituta” o straniera stentano a riconoscere le vessazioni subite dalle donne all’interno dei traffici perché considerano la violenza una conseguenza, ignorando la vittimizzazione primaria all’interno della schiavitù sessuale o degli usi religiosi ed etnici ai sensi dell’art. 36 capitolo V (stupri con minaccia e ricatto).
3- Le donne vittime della violenza economica:
le vittime della sopraffazione maschile sono anche vittime di un’economia maschiocentrica e la Convenzione riconoscendo la natura strutturale della violenza perpetrata sulle donne individua nei supporti economici un valore strategico di contrasto ad ogni sua forma. Per questo stabilisce all’art. 18 del capitolo IV che alle vittime venga garantito adeguato sostegno economico ed abitativo. Le donne perdono il lavoro per cause che riguardano direttamente anche le scelte politiche dei governi, ma nel caso delle donne separate, non di rado vittime di persecuzioni e violenze da parte degli ex partners, giungono alla separazione già prive di risorse proprie e del lavoro proprio e di un’abitazione indipendente. Come per le altre indicazioni, quella che riguarda la collaborazione tra diversi soggetti (sempre art.18 del capitolo IV) per quanto riguarda i licenziamenti e il così detto “retravailler” (tornare a lavorare) l’intervento dello stato è, se non nullo, sporadico e molto debole. Una delle sconcertanti prove dello spontaneismo che caratterizza l’applicazione di uno dei pilastri della Convenzione, è la restituzione dell’autonomia economica alle donne che spesso ne sono private lasciando il lavoro o già prive di reddito proprio o cedendo il proprio reddito al “capofamiglia” nell’intento di controllarle e porle in stato di totale dipendenza, con la ventilata e mai attuata politica sul territorio nazionale del “reddito di libertà
L’emergenza sanitaria spesso, ha annullato o ridotto l’esigibilità dei diritti acquisiti dalle donne con carichi senza contropartita in molti ambiti. Ricordiamo inoltre che in alcune regioni il COVID19 è stato caratterizzato dall’inattuazione della legge 194 sull’interruzione volontaria di gravidanza, anche questa grave violazione delle indicazioni CEDAW e dell’OMS.
Noi crediamo che ci siano nemici della Convenzione anche in Parlamento, ma crediamo che gli impegni assunti all’atto dell’elezione comportino per tutti il rispetto delle leggi vigenti (ivi compresa e prima la CdiI), dei trattati sottoscritti, della Costituzione, della Carta dei diritti.
Noi pensiamo che i primi, e tardivi, passi debbano necessariamente affrontare il rafforzamento delle garanzie a tutela delle donne che esercitano il diritto di denunciare le violenze, e si vedono penalizzate in famiglia rispetto all’esercizio dei diritti materni; debbano altresì affrontare la tutela delle lavoratrici, sistematicamente punite con la perdita del lavoro sia nella crisi, sia fuori della crisi quando rifiutano di sottostare ai ricatti sessuali ed economici o quando sono condannate al lavoro di cura gratuito.
Chiediamo che con una Sua esortazione i Parlamentari procedano ad una risoluzione per l’applicazione e la codifica concreta della Convenzione, in risposta alle questioni che poniamo, e che sia di indirizzo alla competenza regionale sia nel Welfare, visto che molti degli abusi si consumano nell’erogazione delle prestazioni socio-assistenziali, e sia in materia sanitaria.
Le prime firmatarie
UDI NAPOLI
UDI NAZIONALE
Associazione Salute Donna
Arcidonna
Stefania Tarantino